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Gilberto Benetton: un uomo tutto casa e bottega

di Walter Mariotti

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9 ottobre 2009

Il segreto? Non ce l'ho. O forse sì. Sono un uomo normale che fa una vita normale. A starci insieme una gornata intera, nel glamour rigoroso di Villa Minelli, quartier generale della più illustre famiglia di Ponzano Veneto (Treviso), Gilberto Benetton é proprio così. Più alto, atletico e cool di quanto trasmetta la ritrattistica ufficiale: la mente di uno dei gruppi finanziari più importanti del Paese non ha problemi a ricevere in occhio di pernice e scarpe destrutturate.
«Un piccolo problema al piede. Niente di grave, ma così sto più comodo».Orazio la definiva aurea mediocritas, «normalità dorata». Nel suo caso l'aggettivo mi sembra appropriato, mentre sul sostantivo ho qualche dubbio.
«Io no. Abito da sempre a Treviso in un appartamento in centro. Molto lavoro, pochi amici, sempre gli stessi. Tutte le sere dormo a casa».

E se si trova a Istanbul?
«Ho il vantaggio di viaggiare con l'aereo privato. Anche partendo dopo cena, a mezzanotte al massimo sono nel letto di casa».

La casa è più importante del salotto?
«La casa è fondamentale, come valore e pratica quotidiana. Il salotto non so cosa sia».
Nemmeno quello buono? Eppure le sue società possiedono tutto, lei è dappertutto. «I salotti li conosco ma non li frequento». Telecom? Generali? Nemmeno Mediobanca?

«Dovrei frequentarli di più?».
Se uno ha il cinque per cento... «I salotti si frequentano. Ma non è il mio hobby».

E quali sono i suoi hobby?
«Mmmh... Un po' di golf. Un po' di mare...».

Ho capito. Torniamo al quotidiano.
«Inizio la mattina verso le nove e non so dirle quando finisco. Purtroppo la mia
settimana è fatta ormai di cinque giorni lavorativi, due o tre in Italia e gli altri in Europa».

Purtroppo? Lavorerebbe sabato e domenica?
«L'ho fatto per tutta la vita. A differenza dei giovani di oggi».

Qual è il loro problema?
«L'indisponibilità. Le nuove generazioni che devono rimpiazzare le vecchie gestendo il cambiamento non sono disponibili a molti sacrifici. Non tutti, certo, ma la maggior parte è condizionata dal benessere. Oggi i giovani parlano di lavorare dai cinque giorni in giù, non in su».

Battono perfino Bertinotti.
«Magari. In realtà si fanno condizionare dalla morosa, dalla moglie, dal sistema. Oggi se dovessi lavorare anche il sabato non troverei molto aiuto (sorride)».
Orazio parlava a una società in disfacimento, sfibrata dall'epicureismo, dalla corruzione dei costumi, da un debito pubblico fuori controllo.

«Molte analogie, vero?».
Speriamo di no. Lì la crisi durò secoli.

«Non esageriamo. Fino a poco tempo fa ero pessimista: durerà due o tre anni, mi dicevo. Oggi invece sono d'accordo con Tremonti: la caduta sta rallentando».

Mi dia un dato positivo. Anche solo uno.
«Autostrade. Qualche mese fa il traffico aveva raggiunto il nadir. In estate si è ripreso».

Come è accaduto il crack?
«La responsabilità è della finanza creativa, soprattutto statunitense. Semplicemente, in America non c'erano controlli. Noi siamo stati quotati alla borsa di New York fino a un anno fa: alle aziende facevano molte difficoltà, mentre le banche d'affari non le controllava nessuno. Quei sei, otto, diecimila miliardi di euro di fondi tossici hanno indebitato tutto».

  CONTINUA ...»

9 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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